Questo articolo che conservo gelosamente lo dedico all’Inter che questa sera si gioca la semifinale di Champions contro il Barcellona (non sto gufando assolutamente, no-no, ci mancherebbe!!!). 😉

Non serve scomodare le quartine di Nostradamus o la sfera della zingara. La maledizione è lampante. Persino stucchevole. Adriano che si rompe a pochi giorni dal fondamentale derby di Champions (si giocherà il 6 e il 12 aprile) replica due anni dopo in fotocopia il Bobo Vieri che dà forfait alla vigilia delle semifinali, nel maggio 2003. È solo l’ultima, in ordine di tempo, delle fantasiose sventure che hanno ispirato i tifosi interisti a riscrivere la legge di Murphy (ovvero «se una cosa può andare male, stai sicuro lo farà») in chiave autoderisoria. Punto primo: «L’Inter è una squadra democratica fondata sulla sfiga».

Di leggende nere se ne tramandano almeno due o tre. Quella di frate Eligio, cappellano del Milan e padre spirituale di Gianni Rivera, detto «tonaca e champagne» per come sapeva coltivare ascetismi da clausura e insieme libare nei lieti calici della mondanità, amico e confessore dei ricchi «perché i ricchi, si capisce, soffrono più dei poveri». Esasperato da anni di ingiurie interiste, con il suo Milan umiliato che se la gioca in B con la Cavese, una notte del 1982, persa la pazienza, affacciato alla finestra della sua confortevole cella, avrebbe ululato alla luna piena: «Ancora uno e così sia, poi la carestia». Così sia. L’Inter vince nel 1989 il suo ultimo scudetto, quello con il Trap, uno milanista dentro, e poi lo zero assoluto.

L’altra pista maledetta riconduce al profilo torvo di Ramon Diaz, l’argentino brutalmente scaricato dall’Inter di quello scudetto. Il suo furioso anatema («Non vincerete mai più nulla!») ricorda lo stesso con cui Babe Ruth, ceduto agli Yankees di New York, precipitò i Boston Red Sox nel disonore di una sconfitta durata 86 anni. Gettonato anche lo spot di Ronaldo che, dal giorno in cui fu issato con tanto di camiseta nerazzurra sul Corcovado, a fare il verso del Cristo Redentore, ne ha passate di cotte e di crude, lui e l’Inter, che al confronto le piaghe d’Egitto sono uno svago da Camel Trophy.

La maledizione si esalta quando lo scenario è grandioso. Un testa a testa con la Juve, la festa scudetto all’Olimpico, il derby a San Siro. Sfida questa che il presidente dell’Inter dovrebbe schivare come la peste e che al contrario evoca pubblicamente alla vigilia del sorteggio. Il solito Moratti suicida a caccia di sfortuna, il samurai vincibile delle cause perse? Perché mai il più debole dovrebbe auspicare il più forte, il derby che vale una stagione, ma sì diciamolo, una vita, se la vita è quella degli interisti? E perché, al contrario, il più forte (e il più perfido), alias Zio Fester Galliani in nome di Berlusconi, auspica chiunque purché non sia l’Inter, la squadra sulle cui rovine hanno recentemente consumato facili baldorie?

La bile interista butta ancora veleno due anni dopo la beffa, estromessi dalla Champions senza avere mai perso con il Milan. E Moratti che insiste, rivuole il Milan. La mossa disperata del pokerista che, la canna già puntata alla tempia, si gioca tutto in una mano? Molto recente l’ultimo sfregio. Derby mediocre, zero a zero sputato. Roberto Mancini ha la bella pensata di togliere Veron per Emre. È proprio lui, il turco svampito, a tenere in gioco Kakà che rimpalla in rete la pallaccia sparata nel mucchio da Gattuso. Un anno prima, la rimonta subita da 2-0 a 2-3, da chiudersi in convento e buttare la chiave. Per non parlare dello choc, lo 0-6 del 2001.

E ogni volta la solita storia, interisti a casa, a coccolare il loro collaudato spleen di perdenti. A maledire la maledizione, se stessi, Moratti, Hector Cuper, Alberto Zaccheroni, Mancini che, se avesse la faccia plebea di un Papadopulo qualunque, invece dell’aria da ninfo leggiadro che non ha mai pestato una cacca di cane e sa annodarsi il foulard al collo come nemmeno Cecil Beaton, sarebbe già a casa pure lui come tutti gli altri a infilare spilloni sul pupazzo di Massimo, che i detrattori chiamano Minimo.

Quello di Champions è derby alla massima potenza. Convocazione di massa. Fantasmi del presente e del passato. Di qua Peppino Prisco con il suo cappello da alpino e le battute al vetriolo («È vero, l’Inter nasce da una costola del Milan: infatti non abbiamo mai rinnegato le nostre umili origini»), tutta l’Inter schierata di Papà Angelo e di Helenio Herrera, di là i Nereo Rocco e i Gianni Rivera, i Franco Baresi e i Marco Van Basten. Derby mai tanto feroce nella posta in palio e nella semplificazione degli opposti. La maschera amletica dell’Ingegnere, la sua contagiosa mestizia, contro il superomismo raggiante del Cavaliere. Dieci anni dopo, Massimo Nestore Moratti resta il figlio di Angelo, il petroliere che inventava il Mago pigliatutto mentre, per Massimo, il suo argentino Hector Cuper è un sassofonista mancato. Dieci anni dopo, ha girato miglia e miglia e si ritrova al punto di partenza, come l’asino dei vangeli gnostici, sempre in bilico tra lo zimbello e un eroe alla Fitzgerald.

Moratti che invoca il Milan lo sa bene: per uscire dal maleficio gli serve un’impresa alla Parsifal, annientare il Milan di Berlusconi, il Male Assoluto, secondo la coreografia esposta nella nord all’ultimo derby. Stracciare con i suoi peones quel calcio ipnotico, maliardo, portare a casa la pelle dello spocchioso incantatore che li ha espropriati di tutto, persino del Biscione. Di Moratti, chissà perché, si ricordano solo gli inverni, le fughe nauseate da San Siro, interrato nel suo paletot buio, il bavero alzato, le mani in tasca, l’amore che diventa colèra, in attesa di diventare collera. Uno che sta sempre dalla parte giusta. Lui e la moglie Milly, dalla parte di Amnesty e del cardinal Martini, dei Gino Strada e dei Vincenzo Muccioli, dei ragazzi di strada e dei cuccioli. Ma sono le cose giuste che non stanno mai dalla sua parte. Si è regalato e divorato in dieci anni un centinaio tra giocatori e allenatori. Una manna per i pusher del mercato.

È lui il manifesto del calvario interista. Della bulimia che svuota a casaccio le dispense. Sconosciuti, cardiopatici, fenomeni prima e dopo l’Inter, quasi mai durante, brocchi tutta la vita. In compenso, via Pirlo, Seedorf e Crespo, che oggi sono la fortuna dei rossoneri. Di Berlusconi si ricordano le apparizioni dal cielo, lui che atterra con l’elicottero Agusta sulle note della Cavalcata delle Valchirie. Il suo Milan è una major di soubrette firmate Armani, un apparato in cui tutto è programmato a vincere, dall’erba di Milanello al menù che servono a tavola. È il sogno che si realizza con una petulanza che mortifica i suoi stessi tifosi, a cominciare da quelli di sinistra, che sognano l’ossimoro, un presidente che sia un Moratti vincente. Mille miliardi, 100 acquisti, 10 anni, 0 scudetti, è la scheda di un fallimento: 6 milioni di tifosi in tutto il globo appesi al gancio di un’attesa che nel tempo è diventata devozione.

I giocatori simbolo della squadra di Ancelotti sono esemplari da copertina, Kakà, Shevchenko, Maldini, Nesta. Persino Gennaro Gattuso diventa glamour in rossonero. Javier Zanetti in mutande è l’alter ego di Moratti alla scrivania, eroismi da solista, fughe in avanti, palla al piede da ergastolano, conati della disperazione. Cordoba il colombiano che pare Belfagor, Materazzi e Vieri, movenze da Frankenstein, Adriano il cuore nero delle favelas. Baresi alzava la mano e ordinava il fuorigioco. Se lo fanno Materazzi e Cordoba gli fischiano il fallo contro. L’epica dell’Inter è quella della sconfitta. Gli striscioni dei suoi tifosi («Non so più come insultarvi») sono colpi di genio, perché il sogno puntualmente mancato, il dolore anche se sportivo, stimolano la creatività, male che va la barzelletta spietata.

Chi perde è sempre incline al filosofare. Si sprecano nelle trincee bastonate dell’Inter i saggi sulla nobiltà della sconfitta, contro l’enfasi ottusamente celebrativa dell’altra sponda. È così che l’Inter, passando di sconfitta in sconfitta, moltiplica i suoi proseliti: 500 mila nuovi tifosi solo negli ultimi tre anni, allargando il solco che la distanzia dal Milan. Masochismo di massa? L’inverosimile scudetto mancato all’Olimpico, il 5 maggio sottratto per sempre a Foro Buonaparte, non ha solo infranto i cuori, li ha conquistati per sempre. Resta il mistero indigeribile per Berlusconi. Perdono e la scena mediatica è sempre loro. Se l’Inter fa della sconfitta la sua impresa, il Milan è condannato a vincere. È il monolite dello zenit berlusconiano. La sconfitta, malattia inconcepibile, lo dissolve. Ecco ogni volta il panico di Galliani in tribuna. Galliani non voleva l’Inter.

I due derby di aprile possono sconvolgere il presepe. Liberare l’energia mostruosa che cova sotto le ceneri dell’orgoglio interista. Moratti che ride e sfratta Berlusconi dalla Champions sarebbe forse volgare come vittoria, ma giornalisticamente strepitosa. La smetterebbero una volta per sempre di scrivere di lui, Massimo non più Minimo, che è il fratello sbagliato al posto sbagliato. Che ha le mani bucate, ma c’è solo il buco e mai la ciambella. Che arriva tardi su tutto, su Roberto Baggio quando è in declino, su quel che resta di Gabriel Batistuta, su Edgar Davids quando è un ex pitbull sfiatato. Di un Moratti che si circonda di archeologiche icone, mentre di là stravincono tutto con un antennista di Monza e uno sconosciuto ex venditore di scarpe di Fusignano. Ma il sospetto è che capiti il contrario. La maledizione. Un autogol di Toldo al 90°. E Moratti che si confida, alla Marilyn: «È la storia della mia vita: se c’è una ciliegia con il verme tocca sempre a me».

Giancarlo Dotto

(1 aprile 2005) – Panorama