Sarebbe bello pensarlo, ma è solo una immagine retorica, buona per un romanzo. La vita non è così. E si precipitava nel vuoto da ben prima che inventassero il cinema. Con tutta la buona volontà non riusciremo mai ad immedesimarci in lei, nel suo volo disperato, non sapremo mai se stava pregando o piangendo atterrita. Non mi piace l’uso improprio, smodato, che si fa della parola «giallo » di fronte alle morti inspiegabili che costellano la nostra vita quotidiana. La morte è la morte, non abbiamo il diritto di spettacolarizzarla, addomesticarla. Graziella è morta, riesco solo a provare una infinita pena per lei. La sua vita anonima merita rispetto.

Quando negli incontri pubblici mi presentano come un giallista io, fra me e me, mi dico sempre: «Magari lo fossi!». Magari riuscissi a scrivere un giallo per davvero. Una di quelle macchine narrative perfette, lucide come un brillante, senza alcuna impurità, belle come può essere bello un astrolabio, logico, scientifico, e allo stesso momento incomprensibile e affascinante, dove il dovere della trama soverchia tutto, annulla le digressioni, la banalità delle esistenze, il puzzo della vita. Invece quando scrivo non so esimermi dall’impasto barbaro della lingua, dall’autobiografia, dalle divagazioni, le lordure, la prosaicità delle pene quotidiane. Sono un pessimo giallista, al massimo quello che riesco a fare è semplice letteratura. Ma la letteratura è niente di fronte alla vita, la letteratura non può restituire davvero i battiti del cuore, il respiro affannato, le speranze, i dolori. La letteratura è una parodia della vita, mentre ogni vita che muore, ogni cuore spezzato, anche il più anonimo, è una biblioteca in fiamme.

Destini incrociati
Graziella abitava a neppure duecento metri da casa mia. Lei in via Pascarella, io in via Lopez. Il cuore del cuore di Quarto Oggiaro, la feccia, per alcuni addirittura «l’inferno». Ma io ci sono cresciuto senza accorgermene, era un posto dove vivere e crescere, dove sperare e amare. Aveva ventisei anni, Graziella, cadde dal balcone di casa sua nel luglio del 2001. Non me la ricordo, ci saremo incrociati chissà quante volte, ma era più giovane di me di nove anni e, da ragazzi, nove anni sono un’era geologica. Ora io ho quarantadue anni, e la sua obbligata eterna giovinezza la vivo come una illogica colpa. Non vedrà mai crescere sua figlia — non so neppure quanti anni abbia! — non potrà commuoversi nel giorno del suo matrimonio. Mi ricorderò di Graziella quando guarderò le mie figlie sposarsi?

Era l’una e venti di notte, era la notte fra la fine di giugno e l’inizio di luglio, il mese più crudele per Milano. Il più caldo, afoso, il più deprimente. Una telefonata al 118 avvertì della tragedia, appena giunse l’ambulanza i lettighieri dissero, senza indugio: «Suicidio». Chissà quanti ne hanno visti nella loro vita. Ci si fa il callo alla morte, all’insensatezza della morte?

Tutto quello che so di Graziella è dai giornali, letti con quella avidità un po’ morbosa, di chi vuole sapere cosa accade nel tuo quartiere. So che era separata, che era attiva nel sociale, che frequentava la parrocchia. Probabilmente la Santa Lucia, l’oratorio della mia infanzia. Potrei persino andare ad informarmi da qualche amico che ancora si dà da fare con l’orda di ragazzini che ci ha sostituiti negli anni, potrei fingermi quel giornalista che non sono, andare dal parroco. Ma non lo faccio. Mi vergogno, mi pare di violarla ancora. Chi sono io, che diritti ho sulla sua vita?
Ho trovato una foto di Graziella. E’ piccola, sfocata, provo ad allargarla sullo schermo, i pixel impazzano, nebulizzano il suo volto. Era una ragazza qualunque, gli occhi scuri, leggermente segnati dal trucco, i capelli lunghi, neri, mi ricorda una mia cugina che non vedo da tempo. Era bella Graziella? Ha importanza che lo fosse? Ché se fosse stata brutta la morte sarebbe stata più sopportabile? E comunque sì, Graziella aveva quella bellezza popolare, sopra le righe — nel maglione chiassoso, nei grossi cerchi dorati alle orecchie — quella bellezza pulita, vissuta, ordinaria. C’è una mano sul suo fianco, ma chi l’abbraccia è fuori dall’immagine, forse è stata tagliata, chi ha fornito la foto non voleva farsi riconoscere. Una amica, o forse il suo compagno.

Pensava a lui mentre volava dal quarto piano? Oppure pensava a sua figlia? Forse stava pregando. Pregava il suo Dio, quello che andava a trovare tutte le domeniche a messa, forse gli chiedeva spiegazioni. Dove sei padre mio? Perché mi hai abbandonata? Dov’era Dio quella notte di luglio? Arrivò anche la polizia, quella notte. La squadra mobile. No, nessuno dal commissariato di Quarto Oggiaro. Neppure esisteva il commissariato nel 2001. Lo «inventai» io, quando pubblicai il mio primo romanzo. Pochi mesi dopo, però, come una beffa, ne inaugurarono uno, nuovo nuovo, come se la vita, la realtà, volesse adeguarsi alla fantasia. A dimostrarmi quanto la mia sia una fantasia banale, prevedibile. I poliziotti non riuscirono ad entrare nell’appartamento di Graziella, era chiuso a chiave, dovettero aspettare l’intervento dei vigili del fuoco perché Graziella non aveva le chiavi con sé.

Chi aveva chiuso la porta, allora? Mi immagino la casa, piccola, non più di due stanze, come quella dove sono cresciuto io, a neppure duecento metri da casa sua, mi immagino l’appartamento di Graziella, dignitoso, ordinato, con quella cura che hanno le donne, le madri. Penso alla figlia: chi gliel’avrà detto, la mattina appresso, che non avrebbe mai più visto la sua mamma? Quanto coraggio, quanta dolcezza ci vuole, per dire la verità ad una bambina, per distruggerle l’infanzia?

In casa la polizia trovò alcuni abiti maschili, ordinati e avvolti nel cellophane. I poliziotti chiedevano, i vicini confermavano: era separata, Graziella, ma frequentava un uomo, da qualche mese. Marco. Gli voleva bene, certo. Ma perché lei era buona, perché lei non si rendeva conto che Marco era un tipo violento, un poco di buono, un cocainomane perdigiorno. Conosceva il passato di Marco, Graziella? Sapeva che quando l’aveva conosciuto era appena uscito dal carcere? Che nell’ambiente lo chiamavano «Pitbull », per la sua ferocia, per la sua aggressività? Che importanza ha saperlo, oggi?

Graziella lo amava, o forse aveva bisogno di crederlo. Voleva una vita normale, e forse era convinta che Marco potesse dargliela. Si intrecciano legami fra le persone che non sono logici. Per certe donne l’amore è una droga crudele, che crea dipendenza, che inebria e occulta allo sguardo tutto il male che porta con sé.
G raziella ha amato con tutta se stessa Marco, ne sono certo. Ha amato come sanno amare certe donne del popolo. Non ascoltava quello che le dicevano gli amici, non sopportava che venisse continuamente messa all’erta. Forse pensava pure che il suo amore sarebbe bastato per tutti e due, che il suo esempio, la sua forza d’animo, l’avrebbe redento. Sì. Sono certo che Graziella sapesse del suo passato, del carcere. Probabilmente avrà pure creduto alle sue assurde giustificazioni.

Marco nel 2001 aveva trentatré anni, due meno di me. A gennaio di quell’anno era uscito dopo averne passati otto in carcere. Quando ci era entrato vivevo ancora nel quartiere. Quando ci è uscito ero già padre di famiglia e abitavo da tutt’altra parte. Non ho una sua foto, non so che faccia abbia, ma non è impossibile che lo conoscessi, magari da ragazzi ci saremo pure offerti una sigaretta, dati una indicazione per strada, mandati al diavolo. Pitbull. Graziella sapeva di quel nomignolo così gonfio di disprezzo? Forse ci rideva sopra. Forse pensava che tutti hanno diritto a una seconda possibilità, nella vita. Lei voleva essere la sua seconda possibilità, ci ha creduto per mesi. Poi ad un certo punto ha desistito.

I vestiti stirati
Ecco perché i vestiti accatastati, in bell’ordine sul letto. Era la sua dichiarazione di sconfitta. Il suo amore — espressione dell’amore di Dio che portava sempre con sé nel rosario che le cingeva il collo — non era riuscito a redimerlo. Quella pila di vestiti era un addio. Marco continuava a pippare cocaina, era sempre più violento, ingovernabile, Graziella non lo poteva più sopportare. Anche per questo, quella sera, sua figlia non c’era. Doveva dirgli addio, e, lungimirante, aveva lasciato la bambina dal padre. Questo sa fare l’amore materno.

Aveva amato Marco inutilmente, aveva sprecato il suo amore per un uomo violento, che non voleva cambiare, destinato a ripetere come una maledizione sempre gli stessi rituali di affermazione di se stesso, di prevaricazione sugli altri. Otto anni di carcere non erano serviti a nulla. Forse, anzi, l’avevano imbarbarito, forse gli avevano definitivamente strappato di dosso quei lacerti di anima che invece Graziella continuava a vedere, fiduciosa di Dio. Quel Dio assente, in quella notte d’estate.
I poliziotti non credettero al suicidio. Non era solo per le chiavi sparite nel nulla (chi aveva chiuso la porta allora?), era che non sembrava possibile che una donna di fede, una madre affettuosa, gettasse così al vento la sua vita.

E poi certe cose davvero non tornavano. La telefonata al 118 era partita proprio dal cellulare di Pitbull. Era lì, lui? Aveva visto Graziella gettarsi dal balcone? Perché allora è sparito, si è dato alla macchia? Non è già questa una implicita dichiarazione di colpevolezza? Poteva avere avuto paura, certo, dati i suoi trascorsi. Il colpevole perfetto. In un romanzo sarebbe persino banale. In un giallo questa sarebbe la tipica falsa pista, quella che il romanziere regala al lettore vorace, per ingarbugliargli la matassa. Ma la vita non è interessata alle trame complicate, ai colpi di scena, alle agnizioni. La vita non è estetica. Tutto è così crudelmente banale, nella vita.

Botte alla compagna
Otto anni di carcere, si era fatto Marco, ma non per una rapina. No. Nel 1993, appena venticinquenne, aveva massacrato di botte la sua compagna, le aveva rotto due costole che le avevano perforato i polmoni. Una belva feroce, un pitbull. Lo sapeva questo Graziella? Tale e tanta era la fede nel Signore, da accettare anche questa prova? Sei mesi ha resistito, Graziella, prima di decidere di lasciarlo. La pila di pantaloni stirati, di camicie piegate, erano il suo addio a Marco, che aveva le chiavi di casa, come un qualunque fidanzatino, e che quella sera irruppe nell’appartamento, tronfio, arrogante, pronto a litigare, a marcare il territorio. Nessuno poteva lasciarlo così, come un cane, non lui, non Pitbull.

Questo ricostruirono le indagini di polizia. Una discussione violenta, l’ennesima. La belva che si scatena. Ma non è solo un’illazione. C’era una prova, che veniva dal medico legale, dopo l’autopsia del povero corpo inerte di Graziella. Eccolo dov’era Dio. Quel Dio silente, che sembrava voltato dal-l’altra parte, durante il litigio furibondo, le minacce della belva, gli schiaffi. Quel Dio dimentico dell’amore di sua figlia, indifferente alle mani che le stringevano il collo, fino a farla soffocare.

In uno sprazzo di lucidità la belva doveva aver capito cosa stava combinando. Cosa aveva combinato, irrimediabilmente. Così decise di confondere le acque, prese il corpo morente di Graziella e lo gettò oltre il parapetto. Graziella, forse, in quei pochi secondi di vita non pensò a nulla. Ma Dio era con lei. Questo disse il medico legale. Trovò la prova che incastrò la belva in fuga. L’osso ioide fratturato, ma soprattutto i segni dei grani del rosario stampati sul collo della ragazza, la prova dello strangolamento inferto da Marco, le «ave maria», i «padre nostro », i «misteri della fede» tatuati sul corpo martirizzato di Graziella.

La condanna
Dopo dieci giorni di caccia all’uomo, Marco fu catturato. Al processo fu condannato a ventitrè anni di reclusione. Pena poi confermata in sede di appello. Ma questo è il giudizio degli uomini, non è un lieto fine. E del giudizio divino io ho smesso di interessarmi da tempo. Io non sono niente, sono solo un imbrattacarte. Ma sono vivo. Invece sette anni fa, alla una e venti di notte, in quella estate calda, in via Pascarella 20, a pochi passi dalla casa della mia infanzia e della mia adolescenza, bruciava una biblioteca, si spegneva una vita. Era una bella ragazza dai capelli neri, si chiamava Graziella Girgenti, per il mondo, forse, non era nessuno. Una persona qualsiasi, dimenticabile. Io non l’ho mai conosciuta, ma questo è il mio umile modo di non far perdere le tracce fantasmatiche del suo passaggio su questa terra. Questo, in fondo, è l’unico vero dovere che ha la letteratura. Fare memoria delle piccole vite. Scrivere di loro, come se ogni volta si innalzasse una preghiera al cielo.

Gianni Biondillo
25 Maggio 2008 – Corriere della Sera